Eros2011


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Critica_Sipari_Caliaro


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Una poesia né narcisistica né consolatoria, ma mezzo per appercepire la realtà e soprattutto per attingere l’autenticità: questa appare l’idea di poesia di Eros Olivotto, affidata ai versi metapoetici de I poeti:

Stanno, come piante,
nel vuoto delle rive.

Tenui piante di fiume,
esili rami,
chini su cose
da altri lasciate.


E proprio chi pratica tale specie di poesia offre la risposta alle domande di Chi mai?:

Da chi saprò
il passo del profumo,
la nostalgia,
l’andare dilatato degli aromi?


È quindi la fedeltà a una parola ancora capace di dire: preziosa è la parola che ridà senso e dignità alla poesia.Ma dove risiede l’autenticità? Il luogo della permanente autenticità è la vita quotidiana, coi suoi valori e i suoi sentimenti, e lo sono anche le piccole cose, fragili e transitorie, che la poesia innalza a misura di canto e trasporta su un piano di eterna durata. L’autenticità dimora pure presso i morti, la cui presenza è talora avvertita sino alla compenetrazione («Sto con chi è stato. || E giace in me, | mi trapassa», In me), talora invece sofferta come perduta («Dov’è chi con mitezza | offrì le spalle al giorno, | chi ci protesse, | ci guidò, | chi con il canto allontanò fantasmi?», Chi?). Sembra comunque esserci osmosi, tra i vivi e i defunti, un’osmosi silenziosa poiché coi morti non s’intreccia dialogo, e in essa ciò che vive rivela, insieme alla sua immedicabile friabilità, anche la sua verità ultima: il senso della vita individuale forse ripetizione di una vita già vissuta, entro lo sterminato flusso immemoriale dell’esistenza. E la fedeltà ai trapassati si coglie altresì nella fedeltà ai luoghi (La mia valle).
Nesso tra il mondo dei vivi e quello dei morti è il ricordo, altro asse tematico di Sipari. Ma pare che, non appena si cerchi di provarne la consistenza reale, l’incanto si spezzi avvertendo il senso del tempo trascorso irremediabilmente: sfumano i contorni del ricordo, quasi non appartenesse più al poeta.
E’ il tempo, l’altra presenza assidua della raccolta. Certo quello storico: affiora lo smarrimento di certezze, psicologiche e ideologiche («bruciammo incensi all’Ideale [...] Vivemmo al meglio | quel che rimaneva, | adducendo plausibili ragioni», Via Meati; «Li vidi, i sogni, morire», I sogni), entro una realtà individuale e collettiva radicalmente mutata in pochi decenni, da cui il bisogno, quasi fisiologico, che talora appare deluso, di tornare alle proprie origini. Ma più che il tempo storico, sembra avvertito e notificato il tempo biologico, quale si cristallizza percettibilmente nel trapasso delle ore, dei giorni, dei mesi, delle stagioni, nei segni sui volti, nei lenti gesti dei vecchi: il mutamento temporale, la finitezza dell’uomo, il dolore vengono toccati con tatto estremo e dominata malinconia.
A ogni promessa della vita può però seguire una delusione e l’attimo di felicità risulta vissuto con stupore se non con estraneità («Che sapevamo di anni, | di fatica o stanchezza, | di questa imprevista dolcezza?», Allora). Il poeta salva comunque un’alleanza con la vita («Giorni verranno, dimmi, | assolati e veloci, | dolci | come frutti maturi...», Giorni), anche perché immergersi in essa fornisce riparo e consolazione. Spettacolo della vita, momenti di grazia, da osservare con tenerezza, da cogliere con amorosa trepidazione, anche se nel ricordo, sono i bambini, che incarnano la felice istintualità, ad esempio nel momento rivelatore del gioco («Sai, | c’è una striscia di terra che affiora dal fiume, | quasi un ricordo, | un pensiero lontano nel fondo del cuore. | Lì si giocava, | chini al vento e all’estate, nel fango azzurro, | vivi», Quasi un ricordo); o i ragazzi («Escono i ragazzi dalla scuola, | forti come vino che zampilla, | come acqua che sgorga dalla terra...», I ragazzi); o la giovane donna fragrante di Piazza Bra, chiusa nella sua semplice perfezione, peraltro anch’essa creatura effimera e indifesa, perciò ancora più straziatamente preziosa:


Ferisce, ragazza,
l’onda dei tuoi fianchi,
inavvertita,
sfiora la mia fronte.

Sicura nel tuo passo,
vai,
azzurra luce
di un giorno che rincorre la sua sera.


La donna, che vede nella maternità compiersi la propria femminilità («E mentre le tue mani poseranno, | come perle | sul fondo di uno scrigno, | nel tuo grembo volgeranno stagioni» Maternità), è con la natura, i bambini e la stessa poesia, una delle cose buone dell’esistenza, e, nella sua concretezza e specificità fisica, portatrice di natura e di umanità. Con la donna s’affaccia inoltre il tema amoroso, dalla modulazione memoriale, di una dolcezza insieme lieve ed elegiaca.
In Sipari l’uomo si rivela anche esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, tra disperazione e speranza, nell’ansia e nella volontà di assoluto, avvertite salvifiche («Anima mia, | che ti volgi esitando, la tua sete ci salverà), come esplicita l’epigrafe alla sezione più intensamente religiosa del libro: «Diciamo la verità: abbiamo sete di cielo!». Il dolore non redime, accerta e notifica la realtà dell’uomo («Non c’è salvezza nel fondo del dolore, | se mai, | una sfinita verità», Dicevi...), di chi invoca il conforto di Dio, presenza non incombente («Dio, ascolta...», Ascolta), la cui voce tace allo spirito vigilante nell’attesa e nell’ascolto («nulla rimane oltre il tuo nome | gridato | attraverso il silenzio», Oltre il tuo nome): quello cui l’uomo volge la sua tensione è, con stilema pascoliano, un «cielo lontano» (Ascolta). Ma «Infine non potremo che pregare» (I cipressi).
Olivotto domina il metro, lo dimostra nella cantabilità dei novenari piani di Fruscio («Un telo di garza sottile | celava la vista del sole, | negando alla stanza la luce, | che vana filtrava d’attorno...»); nella studiata tonalità prosastica de La mia scuola, uno dei testi più belli della raccolta, di sapore anch’esso sabiano, esibisce una discorsività che non teme di essere effimera:


Ha piccole aule, la mia scuola,
pochi banchi di legno
e pareti dipinte di azzurro.

Ha una scala silenziosa,
un cortile battuto dal vento,
un’aiuola,
e un giovane pruno nasconde dei nidi.



Ilvano Caliaro

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